La traduzione asseverata: una trasposizione ufficiale a cura del traduttore
Tra tutti i servizi forniti dai traduttori, ce n’è uno particolarmente delicato che, complici l’exploit del commercio internazionale e l’incremento dei flussi migratori, negli ultimi anni ha assunto un ruolo sempre più centrale. Si tratta di quella che, gergalmente, viene chiamata traduzione giurata, richiesta ogniqualvolta si ha a che fare con un documento redatto in italiano e destinato alle autorità estere o quando bisogna far valere nella Penisola atti prodotti extra confine. In entrambi i casi, per certificare il contenuto conforme del documento privato o istituzionale che coinvolge soggetti di Paesi differenti sarà necessario un atto pubblico di competenza del traduttore. È infatti lo stesso esperto che, sotto la propria responsabilità e consapevole delle sanzioni penali connesse a false attestazioni, dovrà accertare la fedeltà del testo convertito a quello originale e prepararlo all’eventuale ulteriore passaggio all’ente, competente alle traduzioni legalizzate.
Asseverazione: consuetudini e differenze locali
Paese che vai, procedura che trovi: dall’asseverazione in tribunale alla certificazione mediante semplice apposizione di timbro da parte dei cosiddetti “traduttori giurati”.
Non è un segreto che le procedure burocratiche italiane risultino spesso più complesse rispetto a quelle degli altri Paesi e questo vale anche per la traduzione dei documenti. Basti pensare che, nel nostro Paese, per asseverare un documento è necessario presentarsi davanti a un pubblico ufficiale. Solitamente, si tratta del cancelliere del tribunale ma nulla vieta di scegliere qualunque funzionario al servizio dello stato e persino un notaio. Solo di fronte a una di queste figure, infatti, il traduttore è legittimato a dichiarare di “aver bene e fedelmente proceduto alle operazioni e di non aver altro scopo se non quello di far conoscere la verità”. Ma il giuramento è solo la prima delle regole da rispettare che, spesso, cambiano a seconda dei tribunali. Alcuni, a esempio, accettano solo traduzioni in particolari caratteri o formati, mentre tutti richiedono fascicoli debitamente rilegati e non più scomponibili. Anche gli allegati da presentare sono gli stessi e comprendono il testo sorgente originale o autenticato, la rispettiva rielaborazione e il cosiddetto verbale di asseverazione, da firmare in loco a pena di inammissibilità della procedura. Ma qui, ancora una volta, le cose cambiano: il traduttore, infatti, dovrà compilarlo in base alle indicazioni della particolare corte di giustizia, che potrà anche richiedere un diverso ammontare per le marche da bollo.
Insomma, la complessità procedurale italiana è evidente e stride con l’iter decisamente più semplice previsto negli altri Paesi. Tra questi il Canton Ticino, dove ogni professionista regolarmente iscritto al Registro di commercio può produrre autonomamente la sua traduzione asseverata. Per perfezionarla, infatti, gli basterà dichiarare in calce che il testo realizzato ricalca quello iniziale e apporre il proprio sigillo personale. Certo, dovrà avere cura di apportarlo a ogni pagina e predisporre il solito fascicolo rilegato non più scombinabile ma i suoi oneri, considerando l’assenza di imposte, finiscono qui. E lo stesso accade in Germania dove, una volta superato un esame, è lo stesso traduttore a essere considerato “giurato” e a ricevere un timbro nominale che, da solo, comprova la fedeltà della traduzione. Ma perché, allora, da noi è tutto così complicato? Forse, la causa è da ricercare nella mancanza di requisiti abilitanti unitari e sanciti per legge. In Italia, le condizioni per poter asseverare una traduzione variano a seconda dei tribunali: se alcuni predispongono liste apposite con candidati dotati di specifiche qualifiche e iscritti alla Camera di commercio, altri non richiedono nulla, nemmeno il titolo di studio.
Nelle traduzioni legalizzate l’onere dell’autenticazione passa alle autorità competenti
Nonostante venga spesso scambiata con quella asseverata o giurata, la traduzione legalizzata presenta una ratio e una procedura completamente diversa e, spesso, complementare alla prima. In questo caso, infatti, il problema non è più sancire l’autenticità del contenuto tradotto ma spingersi a monte, per accertare che un documento estero certifichi il vero e sia stato effettivamente emesso dall’autorità addetta a questo compito.
Spesso, la pratica viene avviata per dare valore legale a titoli di studio conseguiti in uno stato straniero o a certificati di matrimonio fra persone di nazionalità diverse. In queste evenienze, né gli uffici nazionali né il traduttore sono ovviamente in grado di provare i requisiti di validità richiesti e, dunque, la palla passa alle rappresentanze consolari sul posto, le uniche in grado di verificare l’autenticità della firma e la qualifica di Pubblico Ufficiale del sottoscrittore del documento.
In realtà, però, questo passaggio risulta il più delle volte superfluo grazie alla Convenzione dell’Aja che, dal 1961, ha alleggerito gli obblighi di legalizzazione gravanti sui Paesi aderenti, sostituendoli con l’omonima apostille apposta dalla Procura della Repubblica.
In ogni caso, in queste situazioni bisogna fare un dovuto distinguo tra la traduzione dei documenti e la procedura per legalizzarli. Solo la prima, ovviamente asseverata, spetta infatti al traduttore, mentre per la seconda bisognerà rivolgersi autonomamente all’autorità preposta, a meno che il servizio non sia compreso nel pacchetto acquistato.